Ogni storia è diversa, ogni libro è diverso. Ci sono libri che irrompono nell’anima e vi dimorano per sempre. Sono questi i libri che hai subito voglia di raccontare, che non riponi in uno scaffale qualunque della libreria: avranno un posto ben preciso tra quelli che, di tanto in tanto, tornerai a sfogliare perché ne avrai bisogno. Uno di questi è “Alda Merini, mia madre” autrice Emanuela Carniti primogenita della tanto amata poetessa del novecento, Alda Merini. È un libro che si legge tutto d’un fiato. È un libro che si ama e dunque, non potevo non parlarle. Leggere “Alda Merini, mia madre” è come varcare la soglia di un luogo Sacro.
È “L’Altra verità” quella, che grazie al buon cuore di Emanuela Carniti ci viene narrata. “Alda Merini, mia madre”, pubblicato dalla Manni Editori, è un libro generoso dove la sofferenza, che taglia le pagine, è cucita insieme ad un’unica parola: Amore. Il voler bene alle persone care porta spesso ed inevitabilmente al dolore, dolore che l’autrice conosce molto bene. È una confessione il libro di Emanuela Carniti, è la storia di una vita inconsueta della quale conoscevamo solo una parte, e forse, è proprio questo il motivo che l’ha spinta a rivelarci la sua verità. Non dà colpe, nonostante abbia sofferto e conosciuto il carattere prepotente ed esuberante di quella madre tanto avida di Sé. Di quella donna che riusciva a rubarti anche il respiro, eppure, così tanto generosa, aggettivo che ricorre nel libro molte volte. Perché, in fondo, Alda era uno straordinario “ossimoro”.
In effetti, una tale contraddittorietà nella vita è sempre e comunque qualcosa di unico e miracoloso ed Emanuela ne ha piena consapevolezza. Anche quando profondamente ferita, descrive ogni momento con sereno e tenero abbandono. I suoi ricordi, come tiene a precisare, sono “piccoli brani di gioia.”, nonostante tutto. In fondo, ha sempre saputo che Alda non era una madre qualsiasi, ma pur sempre, “Il primo poeta in Italia” e ci tiene a ricordarlo. Emanuela pur dicendo la cruda verità legittima sua madre: “non riusciva ad adeguare i propri desideri alla realtà, e la realtà non era quella che si aspettava, così lo sconforto aumentava di giorno in giorno…mamma si dedicava molto a noi, alla casa, faceva del suo meglio per adeguarsi al ruolo che pure non le piaceva”.
È stata sempre consapevole che il ruolo di madre e di moglie per Alda fosse solo “un’ingerenza”. Emanuela descrive in maniera quasi idilliaca il momento in cui Alda si rifugia in un angolo della cucina per scrivere: “me la ricordo sempre sul tavolo della cucina, in qualche canto, prima con la penna e poi con la macchina da scrivere, china su un foglio. Quando scriveva entrava in una sua bolla e noi ci rendevamo conto che si infastidiva se la disturbavamo.” E qui, mi pare proprio di vederla Emanuela, proprio lì, nell’angolo opposto della cucina mentre osserva con occhi malinconici e pieni d’amore quella mamma poeta che tanto ama sino a considerare che quell’angolo chiuso nella “bolla” le spettasse di diritto. Ci racconta la mamma e la poeta, le pubblicazioni, i rifiuti, gli amori. Ci racconta delle ferite inferte dal manicomio, descrivendo con estrema semplicità quella bambina che si recava in manicomio a visitarla e le parole della mamma: “Vai via, vai via!”.
Parole di una madre che vuole a tutti i costi difendere la propria bambina. Sì, perché Alda era diversa ma pur sempre una madre. D’altronde Alda, come Emanuela tiene a farci sapere, non era colpevole di nulla, non era capace di badare nemmeno a sé stessa a causa della sua natura particolarmente sensibile, del suo malessere intenso e della sua incapacità di adeguamento. Uno stato dal quale era impossibile fuggire. “Alda Merini, mia madre” non è solo la storia di Alda e della sua famiglia, è la storia di due donne: di una madre e di una figlia. Due donne forti e al contempo deboli. Due donne che hanno lottato entrambe per la loro libertà. Sono brandelli di memorie che riaffiorano lentamente e ricostruiscono profondi contenuti. Sono memorie che si sarebbero infrante con il passare degli anni e non sarebbero state mai nostre se non fosse stato per il coraggio di Emanuela: ha raccolto il fango, lo ha lavorato e ne ha fatto un calice di pietra per offrirci con purezza la sua vita, quella di sua madre e, in maniera pudica, quella della sua famiglia. Storia che solo la memoria di una figlia avrebbe potuto offrire in maniera così limpida e preziosa.
Preziosa proprio come l’intervista che segue.
In una delle tue poesie scrivi: Si muore/quando nessuno ti ascolta/né ti dà risposta.” Quanto sono vere queste parole? E, quante volte ti è capitato di morire?
“Se nessuno ti risponde e come se non ti vedesse. È come se tu non esistessi. Un detto famoso dice “domandare è lecito rispondere è educazione”, in certi casi non si tratta neanche di educazione ma di disattenzione e se dall’altra parte c’è un bambino è cosa assai triste. Sì, mi è capitato di morire. Non tanto quando ero piccola… allora non c’era l’abitudine che i bambini interagissero molto con i genitori, meno parlavano meglio era, quindi, non si aspettavano nemmeno risposte… Alcune cose erano scontate. C’erano cose da fare e si facevano. Anche io sicuramente non sono stata vista per quella che ero. I problemi erano molto gravi e c’erano delle urgenze che andavano al di là di me e dei miei bisogni e in questo senso sì, un po’ si muore. Perché se non sei visto nei tuoi bisogni, che non sono quelli soliti del mangiare, del bere o dormire, ma in tutta una serie di attenzioni, ti senti male…ti senti molto male. Può capitare anche a noi adulti di non sentirci ascoltati, può capitare a tutti. Può anche accadere che qualcuno faccia finta di ascoltarti, che sia con te ed invece, è altrove e questa è cosa assai peggiore. L’altro c’è ma non è presente con lo spirito e con la mente, così… Sì, se non si è ascoltati, si muore lentamente. È una violenza anche questa. Però, è anche vero che spesso tutto questo avviene in maniera non intenzionale e ciò nonostante, fa tanto male.”
Emanuela Carniti scrive poesie proprio come la sua mamma. Quanto la tua poesia sente dell’influenza della poesia di Alda Merini? E, cos’è per te la poesia, Emanuela?
“Non lo so, (sorride) non lo so in cosa io risenta della poesia della mia mamma, anche perché lei aveva una preparazione di un certo tipo molto diversa dalla mia fondata principalmente sulla lettura di molti classici greci e latini, sulla filosofia e molto altro ancora… Certamente non mi ha insegnato nulla. Non poteva insegnarmi e non voleva nemmeno, credo! Quindi quello che so, l’ho appreso semplicemente... Siamo molto dissimili nel modo di scrivere io e la mia mamma e poi non voglio neanche essere come lei e nemmeno potrei perché la sua capacità di scrivere è più unica che rara. Non potrei mettermi sulla sua stessa linea ma credo, che al momento, nessuno possa farlo. Io non sono lei e non sarò mai lei e nemmeno lo vorrò essere. Qualcosa probabilmente avrò appreso, non so cosa (sorride)… avrò assorbito senza volerlo…Cosa è per me la poesia? Credo sia il modo migliore per comunicare. E forse, a casa mia io ho imparato proprio come impara il figlio del falegname nella bottega del padre … In verità credo che la poesia arrivi molto alle persone ma dipende anche da come si scrive, chi scrive con il cuore arriva a più persone. Non credo c’entri tanto la metrica, che comunque bisogna conoscerla, ma tanto più l’emozione che il lettore riesce a coglierne. In realtà chi scrive, scrive per sé è l’artista che crea... Poi se piace anche ad altri è un valore aggiunto… La poesia è uno strumento che utilizzo principalmente nei momenti in cui sono in conflitto con me stessa, oppure, sono triste. Quando sono contenta scrivo poco o non scrivo, poiché sono “dentro”, sì…sono dentro la gioia, la serenità e credo che questa sia la migliore poesia del mondo. La poesia è uno strumento per rileggermi, rivedermi e, alle volte, anche a distanza di tempo, è il miglior mezzo per conoscersi.”
Per motivi di lavoro sei stata a lungo vicina ai malati psichiatrici e quindi hai vissuto con loro il dramma della sofferenza. Tu stessa hai conosciuto il dolore. Credi che il dolore possa in qualche modo aiutare l’uomo a migliorarsi? A renderlo più consapevole?
“Ho lavorato nei servizi psichiatrici territoriali per trentadue anni ed è stato un lavoro che mi ha dato tanto e probabilmente l’ho scelto per il mio vissuto. Credo che chiunque, medico, infermiere o assistente sociale che scelga di fare questo lavoro lo faccia anche un po’ per curare sé stesso… Il dolore ti cambia, sì. Ti cambia dentro, tanto. Non sempre è utile, se servisse veramente sarebbe cosa assai buona e visto che ce n’è in abbondanza renderebbe il mondo diverso. Invece, non funziona così: non sempre si hanno gli strumenti necessari per elaborare il dolore, e dipende da quanto tempo lo vivi e soprattutto dall’età in cui ne vieni a conoscenza. Il dolore di un bimbo resta incancrenito dentro, per sempre. Da adulto cercherà sempre di contenerlo, ma di tanto in tanto uscirà in superficie e farà casino. Però è vero, sì, il dolore può essere anche un modo per imparare a conoscersi, può rendere migliori. Può fare diventare più empatico, sensibile, può avvicinare agli altri e può farli comprendere meglio. Le esperienze forti possono fare involvere ma possono anche fare evolvere.”
“Alda Merini, mia madre” appena pubblicato da Manni Editori è la storia di tua madre, la storia della tua vita. È una confessione. Scrivere questo libro è stato utile ad Emanuela? La scrittura è riuscita in qualche modo ad esorcizzare quel male interiore che purtroppo è parte di te, del tuo vissuto?
“Non lo so. Non so se sia servito ad esorcizzare il mio dolore. Certamente ora so che questo libro potrebbe essere un “punto e a capo” …Il dolore non si può dimenticare, credo, ed è anche giusto. Fa parte della vita di ciascuno di noi, in modo diverso… No, non credo che il dolore si possa esorcizzare, potremmo forse, imparare ad accettarlo e riuscire ad accoglierlo in maniera serena.... Ma un conto sono i desideri, un conto è la realtà. È difficile farlo e bisogna trovare degli strumenti, degli aiuti esterni. Da soli è arduo superarlo a meno che non si tratti di anime già illuminate…dipende da quello che siamo come anime più che come esseri. Dentro non siamo tutti belli, non siamo quelli che siamo stati in origine, tutto ci viene inculcato dalla famiglia, dallo Stato, dalla Chiesa, e quindi si cambia, ognuno diventa un recipiente carico di cose, di dogmi… Quindi sì, il mio obiettivo è stato quello di andare “punto e a capo”. Non so se questa mia risposta sia abbastanza esaustiva (sorride) ma d’altronde, ci sto ancora lavorando sopra!”
“Alda Merini, mia madre”, non è solo dolore. Vi è tanto amore in questo libro. Tanta consapevolezza e la necessità di dire a tutti quanto Alda fosse generosa. L’aggettivo, infatti, ricorre nel testo più volte. Credi che siano stati in tanti ad approfittarsi di questa sua generosità?
“Lei è sempre stata generosa. Era molto generosa ma chiedeva anche tanto. Forse dava più di quello che chiedeva ma io come figlia e con i ricordi della mia tenera età sono forse poco obiettiva a riguardo. Comunque, ripeto è stata sempre generosa… Che si siano approfittati di lei, certamente qualcuno l’avrà fatto, ma questo fa parte della storia di chi è generoso; non gli importa se viene “fregato” il problema è di chi frega…capisci! La generosità non è fatta solo di cose date, è fatta di atteggiamenti, è un modo di porsi verso l’altro. Se sei chiuso, sei avaro, non dai niente ma non ricevi niente, quindi alla fine la generosità è fatta di scambi…Ti ringrazio per questa domanda perché mi fa riflettere su cosa significhi nella quotidianità. Sì… È uno scambio perché chi dà lo fa semplicemente, lo fa con gioia e nel dare riceve gioia e dunque, è contento dentro. Certo il dare non deve essere un sacrificio, un qualcosa di ossessivo, compulsivo... a volte non serve neanche dare, serve solo esserci ed è forse la cosa più difficile... Esserci vuol dire essere presenti con il cuore, con la mente, con la pancia...esserci nell’ascolto, nell’accettazione, nella comprensione. Credo sia questa la vera generosità. La generosità è uno stato di presenza.”
Alda non è mai stata una mamma semplice “nella quotidianità era ingestibile”, scrivi. Quanto spesso ti sei sentita impotente dinanzi ai suoi atteggiamenti?
“Era ingestibile la mia mamma… Sì, spesso lo era. Ti sentivi impotente come ci si sente con qualsiasi altra persona che non è gestibile che non ti chiede un parere ma va avanti per la sua strada, che non ti permette di interagire o di modificare alcunché…Mia madre aveva un carattere molto forte, aldilà che fosse giusto o sbagliato quello che diceva o faceva non si metteva in discussione, infatti, la chiamavo il Boss…Era così, prendere o lasciare. E tutto questo faceva star male lei e tutti noi. Non c’era niente che potesse modificare questo suo atteggiamento, questo modo di fare... questo stare male. Niente.”
“Poetessa madre mia” quanta disperazione e quanto amore in questa poesia incipit al libro “Alda Merini, mia madre”. Sono versi di una straordinaria intensità che “tagliano a pezzi” l’anima. La necessità di inventare una madre e la consapevolezza di non poterlo più fare. Sei riuscita, almeno in questa tua “invenzione”, a ri-conoscerla “tutta intera”?
“Se sono riuscita a riconoscerla tutta intera? Sì, forse sì, o abbastanza. Il libro è stato anche un modo per “rivederla tutta” e per farla vedere “più intera” anche agli altri, con le sue luci e con le sue ombre. Fondamentalmente questo è l’obiettivo del libro: lasciar vedere tutto… La gente ha bisogno di miti, di grandi personalità, in qualche modo tutti ci rifacciamo a certe personalità, piuttosto che ad altre…prendiamo esempi da loro, spunti a cui pensare… però bisogna sempre ricordarsi che siamo tutte persone, non siamo integerrimi… È un po’ come quando c’è l’innamoramento, vedi solo gli aspetti positivi di una persona, mitizzi la persona di cui sei innamorato. Dei personaggi famosi vedi solo i lati positivi, la verità è fatta di altro. Qui c’è anche l’aspetto meno bello, “più reale”. Un tutto che rende la persona, in questo caso lei, “tutta intera” come scrivo nella poesia che apre il libro, “la morte le ha dato una nuova dimensione”. Le emozioni, i sogni non ci sono più perché lei non c’è…però lei rimane una delle persone più importanti della mia vita come il mio papà con tutte le sue luci e le sue ombre. Le stesse che ritroviamo nella copertina del libro.”
Ne “L’altra verità Diario di una diversa”, Alda scrive “L’uomo è socialmente cattivo, un cattivo soggetto. E quanto trova una tortora, qualcuno che parla troppo piano, qualcuno che piange, gli butta addosso le proprie colpe, e, così, nascono i pazzi”. Cosa pensi di questa, a mio avviso, straordinaria verità?
“Beh, l’uomo è fatto di tante parti per cui certamente anche cattivo. I bambini originariamente non lo sono, sono i contesti sociali in cui crescono a renderli tali… anche se cattivo non è un termine che userei…Crudeli sì, alle volte, ma disturbati anche dentro. Siamo disturbati dentro un po’ tutti per cui non possiamo essere buoni. Non siamo buoni perché, come diceva qualcuno, abbiamo un ego molto potente dentro di noi ed è fatto di tante parti. Siamo un po’ tutti in cerca di risposte…cerchiamo risposte nella psicologia, nella filosofia, nella spiritualità …in qualche modo diveniamo parte di ciò che raccogliamo e forse non saremo mai né sereni né buoni. In questo caso posso dare ragione a mia madre, non è solo chi parla a bassa voce o chi si fa piccolo e tremante ad essere punito...anche perché la mamma non era poi così fragile, era comunque una persona molto determinata con una volontà di ferro, quindi non credo che si tratti di debolezza. Sicuramente una persona fragile avrà più problemi rispetto ad un prepotente ma è anche vero che fior di rivoluzionari sono stati perseguitati e sono state persone che hanno fatto ben sentire la loro voce…. non è solo chi si fa tortora ad essere perseguitato ma anche chi fa la voce grossa, anche chi si fa leone. Parlando mi è venuto in mente il film “Qualcuno volò sul nido del cuculo” dove c’è uno splendido Jack Nicholson, qui c’è una persona fuori dagli schemi molto disturbante, molto sicuro di sé tanto da mettere a repentaglio la propria vita, viene addirittura lobotomizzato. Eppure, non è una tortora, è una persona con degli ideali, una persona sola che non fa i conti con quello che potrebbe accadergli in quanto non ha nessuno alle spalle e finisce male... Chi ha da dire delle cose dovrebbe essere sostenuto, da soli, in molti casi, non si va da nessuna parte...”
Nel tuo libro ci sono immagini toccanti e bellissime. Sono i tuoi occhi che guardano, è il tuo cuore che sente. Ora Emanuela, ti chiedo di chiudere gli occhi e lasciarci con il ricordo più bello che hai della tua mamma!
“Purtroppo spesso si ricordano sempre le cose più brutte, noi esseri umani siamo fatti così! Sebbene, tra i ricordi più belli ne ho uno in particolare: la mia mamma mentre suona il pianoforte. Quando suonava il piano era sempre molto contenta…erano momenti in cui, pur dedicandosi ad una cosa che l’appassionava tanto non era così coinvolta, nel senso che era presente, la sentivo, ecco. Ricordo la sua espressione serena quando suonava…Sì, la musica le piaceva molto! Le piaceva suonarla, ascoltarla anche canticchiarla, ballarla a modo suo…Sì, in quei momenti era molto felice.”
E, con questa immagine spensierata disegnata nel cuore di Emanuela termina questo dialogo meraviglioso sulla Poetessa dei Navigli. Un ritratto non qualsiasi, il ritratto di una figlia che con il suo libro “Alda Merini, mia madre” ha voluto regalarci una storia, quella vera. “Grazie Emanuela, sei una donna straordinaria proprio come quelle che piacciono a me, sei autentica, affabile e molto sensibile. Grazie per avermi regalato un po’ di te, della tua anima, della tua, della vostra Bellezza. Momenti di vera Poesia.”